La Vita Emotiva 430

LA VITA EMOTIVA DEL CERVELLO - Come imparare a conoscerla e a cambiarla attraverso la consapevolezza

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Prezzo di vendita20,53 €
Descrizione
Autore: RICHARD J. DAVIDSON - SHARON BEGLEY
Formato:  13X 20,5
Pagine: 385
Anno: 2013
Editore: PONTE ALLE GRAZIE

Richard Davidson 120 L'Autore Richard J. Davidson è docente di psicologia e psichiatria alla University of Wisconsin, a Madison. Nel 2006, Time Magazine lo ha inserito nell'elenco delle 100 persone più influenti nel mondo. Insignito di numerosi premi per la ricerca condotta, fa parte del consiglio d'amministrazione del Main and Life Institute che ha tra i suoi obiettivi la promozione del dialogo tra gli scienziati occidentali e il Dalai Lama. 
Sharon Begley è giornalista di salute scienza per la Reuters. E anche autrice del saggio best-seller del New York Times intitolato Train Your Mind, Change Your Brain.

LA VITA EMOTIVA DEL CERVELLO - Come imparare a conoscerla e a cambiarla attraverso la consapevolezza

RETROCOPERTINA

«Il libro, che riunisce trent'anni di ricerche, è diventato un caso editoriale mondiale» La STAMPA

«La vita emotiva del cervello è un saggio rivelatore, pieno di ricerche all'avanguardia, e cambierà il modo di vedere voi stessi e le persone intorno a voi. [...] Conclusioni all'avanguardia espresse in un testo affascinante e irresistibile. Ho adorato questo libro». Daniel Goleman

«Richard J. Davidson ha dedicato la sua illustre carriera a capire le emozioni umane e ad approfondirne il significato. In questo libro, aiutato da Sharon Begley, trasforma un nutrito tesoro di fatti in saggezza accessibile a lettori profani, che possono applicarla alle proprie vite». Antonio Damasio

«Richard J. Davidson e Sharon Begley hanno creato una visione pionieristica della chimica cerebrale delle nostre emozioni. A partire dalla prova scientifica che la meditazione e le altre pratiche cognitive cambiano realmente il cervello, gli autori permettono a tutti noi di modificare veramente le nostre abitudini emozionali più problematiche, creandone di nuove e più fruttuose. Esercitare un'attenzione più viva, in armonia con gli altri e con il proprio intuito. Tutto questo è possibile... e questo libro dimostra come» Deepak Chopra

RISVOLTO COPERTINA

Cosa succede nel nostro cervello quando siamo tristi o euforici, arrabbiati ottimisti, oppure quando abbiamo a che fare con gli altri? Quali sono le strutture cerebrali alla base della vita emotiva? Fino a non molti anni fa la ricerca psicologica e un euro scientifica non era affatto interessata al «cuore», ma solo alla «testa», ossia alle funzioni cognitive. Negli anni 70 alcuni studiosi intrapresero una serie di ricerche pionieristiche che avrebbero portato alla nascita delle cosiddette «neuroscienze affettive».
Oggi Richard J. Davidson è un protagonista assoluto di questa nuova disciplina, riuscendo a dimostrare l'intuizione che lo aveva folgorato all'inizio degli anni 70 ad Harvard: ragione e sentimento non sono peculiarità inconciliabili, e a ciascuna corrispondono zone e funzioni cerebrali specifiche. Su queste basi dati sono ha elaborato la teoria degli stili emozionali, sei dimensioni emotive che descrivono la personalità di ognuno. Poiché le emozioni si fondano su precise basi neurali, è possibile intervenire sui nostri comportamenti, disfunzionale disfunzionali o meno. Le neuroscienze hanno persino individuato nella meditazione uno strumento molto potente per modificare le strutture cerebrali, sfruttandone la neuroplasticità. A garanzia del valore di queste ricerche, l’equipe di «collaboratori» di Davidson annovera nientemeno che il Dalai Lama. Il cervello non è una scatola impenetrabile e immutabile come si è pensato per secoli: migliorandone il funzionamento, possiamo vivere meglio con noi stessi e con gli altri.


PREFAZIONE

Un'indagine scientifica

Questo libro parla di un viaggio personale e professionale volto a comprendere le differenze fra gli individui nelle risposte a ciò che devono affrontare nel corso della vita, un viaggio motivato dal desiderio di aiutare ognuno di noi a condurre un' esistenza più prospera e appagante. Il filo «professionale» della trama narrativa descrive lo sviluppo di una disciplina «ibrida», le neuroscienze affettive, che studia i meccanismi cerebrali alla base delle emozioni e ricerca i modi per migliorare il benessere e promuovere le qualità positive della mente. Il filo «personale» della trama è la mia storia. Convinto che nella descrizione standard della mente offerta dalla psicologia e dalle neuroscienze convenzionali, «vi sono più cose in cielo e in terra di quante ne sogni la tua filosofia», come Amleto dice a Orazio, mi sono avventurato oltre i confini delle rispettive discipline, talvolta subendo delle stroncature, ma alla fine - mi auguro - realizzando almeno in parte ciò che mi proponevo di fare: dimostrare per mezzo di ricerche rigorose che le emozioni, ben lungi dall' essere entità che un tempo la scienza dominante riteneva irrilevanti dal punto di vista neurologico, svolgono invece un ruolo centrale nelle funzioni del cervello e nella vita della mente.
I miei trent'anni di ricerche nel campo delle neuroscienze affettive hanno prodotto centinaia di scoperte, dai meccanismi cerebrali alla base dell'empatia alle differenze tra il cervello autistico e il cervello con uno sviluppo normale, fino al modo in cui la sede cerebrale della razionalità può farci sprofondare negli abissi emotivi della depressione.1 La mia speranza è che questi risultati abbiano contribuito alla comprensione di ciò che significa essere umani, di ciò che significa avere una vita emotiva. Mentre si accumulavano le scoperte, tuttavia, mi sono allontanato dall' attività quotidiana presso il mio laboratorio alla University of Wisconsin, a Madison, che nel corso degli anni è cresciuto fino a diventare qualcosa di simile a una piccola azienda: mentre scrivo queste righe, nella primavera del 2011, il laboratorio ospita undici studenti specializzandi, dieci assegnisti di ricerca, quattro programmatori informatici e ventun membri dello staff con compiti amministrativi e operativi. Il centro riceve una ventina di milioni di dollari di sovvenzioni per la ricerca stanziati dal National Institutes of Health e da altri finanziatori.
Dal maggio del 2010 dirigo anche il Center for Investigating Healthy Minds presso la stessa università,2 un ente di ricerca che si prefigge di comprendere come certe qualità mentali a cui l'uomo attribuisce un grande valore fin dagli albori della civiltà - compassione, benessere, generosità, altruismo, gentilezza, amore - nascano nel cervello e come sia possibile coltivarle. Una delle grandi virtù del centro è il fatto che il nostro lavoro non si limita soltanto alla ricerca scientifica. Ci preoccupiamo di portare i risultati ottenuti nel mondo esterno, dove possono influire concretamente nella vita delle persone. A questo scopo abbiamo elaborato un programma per l'istruzione prescolare ed elementare volto a coltivare la gentilezza e la consapevolezza; inoltre stiamo valutando l'impatto di questo tipo di educazione sui risultati accademici, oltre che sull' attenzione, l'empatia e la capacità di collaborazione. Un altro progetto studia la possibilità che gli esercizi di controllo della respirazione e di meditazione aiutino i militari reduci dall' Afghanistan e dall'Iraq ad affrontare stress e ansia.
Amo tutto questo: la ricerca scientifica e la sua applicazione al mondo reale. Ma è fin troppo facile rischiare di esserne travolti. (Spesso, scherzando, dico che faccio parecchi lavori a tempo pieno, dalla supervisione delle richieste di finanziamento alle trattative con i comitati universitari di bioetica per ottenere il permesso di condurre ricerche su volontari.) E non voglio che mi accada.
Perciò una decina di anni fa ho cominciato a stilare un bilancio delle mie ricerche e di quelle condotte in altri laboratori in cui ci si occupa di neuroscienze affettive - non tanto delle scoperte individuali, seppur interessanti, ma del quadro d'insieme - e mi sono reso conto che decenni di lavoro in questo campo avevano portato alla luce aspetti fondamentali della vita emotiva del cervello: ciascuno di noi è caratterizzato da ciò che ho deciso di chiamare «Stile Emozionale».
Prima di passare a una breve descrizione delle componenti di uno Stile Emozionale, permettetemi di illustrare rapidamente il rapporto che questo concetto intrattiene con altri sistemi di classificazione che cercano di chiarire l'enorme varietà dell' essere «umani»: gli stati emozionali, i tratti emozionali, la personalità e il temperamento.3
L'unità emotiva più piccola e sfuggente è uno stato emozionale.
In genere ha una durata di pochi secondi e tende a essere innescato da un' esperienza: la gioia che provate di fronte al collage che vostro figlio ha preparato per la festa della mamma, il senso di realizzazione che avvertite quando portate a termine un importante progetto professionale, la rabbia che vi assale perché sarete costretti a lavorare nel fine settimana, la tristezza che vi coglie quando vostra figlia è l'unica della sua classe a non essere stata invitata a una festa. Gli stati emozionali possono anche nascere da un' attività puramente mentale, come sognare a occhi aperti, guardare dentro se stessi o immaginare il futuro. Ma indipendentemente dal fatto che siano attivati da esperienze reali o mentali, gli stati emozionali tendono a svanire per lasciare spazio agli stati che sorgeranno in seguito.
Una sensazione che dura nel tempo per minuti, ore o persino giorni è invece uno stato d'animo, o umore, come quando diciamo che qualcuno «è di cattivo umore». Infine, un modo di sentire che vi caratterizza non per giorni, ma per anni, è un tratto emozionaie. Ad esempio, consideriamo scontroso qualcuno che sembra perennemente irritato, e irascibile qualcuno che ce l'ha sempre col mondo intero. Un certo tratto emozionale, come l'irascibilità, aumenta le probabilità di sperimentare un certo stato emozionale, la collera, perché abbassa la soglia che è necessario superare per innescare quello stato emozionale.
Lo Stile Emozionale è un modo coerente di rispondere alle esperienze della vita.4 Uno stile è governato da circuiti cerebrali specifici e identificabili, e si può misurare utilizzando metodi di laboratorio oggettivi. Lo Stile Emozionale incide sulla probabilità di sperimentare particolari stati emozionali, tratti emozionali e stati d'animo. E poiché gli Stili Emozionali sono molto più prossimi ai sistemi cerebrali sottostanti, possono essere considerati gli «atomi» della nostra vita emotiva.
Al contrario la personalità, un modo molto più familiare di descrivere le persone, non ha un ruolo così basilare né ha un fondamento in meccanismi neurologici identificabili. La personalità è costituita da un insieme di qualità di alto livello che comprendono stati e stili emozionali specifici. Prendiamo, ad esempio, un tratto della personalità molto studiato come l'amabilità. Le persone estremamente amabili, stando alle valutazioni psicologiche standard (oltre alle proprie e a quelle di chi le conosce bene), sono empatiche, premurose, amichevoli, generose e servizievoli. Ma ciascuno di questi tratti emozionali è a sua volta il prodotto di aspetti diversi di uno Stile Emozionale. A differenza della personalità, lo Stile Emozionale può essere ricondotto a una «firma» cerebrale peculiare. Per comprendere la base cerebrale dell' amabilità, è dunque necessario sondare più in profondità gli Stili Emozionali sottostanti.
Di recente pare che nel campo della psicologia sia diventata una moda sfornare schemi di classificazione uno dopo l'altro, sostenendo, ad esempio, che esistono quattro tipi di temperamento o cinque componenti della personalità o Dio solo sa quante tipologie di carattere. Pur essendo senza dubbio interessanti e persino divertenti - i mass media sguazzano nella descrizione del carattere di imprenditori di successo, psicopatici o coppie felici tali schemi hanno una validità scientifica molto scarsa, dato che non si basano su alcuna analisi rigorosa dei meccanismi cerebrali sottostanti. Tutto quello che ha a che fare con il comportamento, i sentimenti e i modi di pensare ha origine nel cervello, e perciò qualsiasi classificazione valida deve basarsi anche sulle funzioni cerebrali. Il che mi riporta a parlare dello Stile Emozionale.
Lo Stile Emozionale prevede sei dimensioni. Non essendo caratteristiche convenzionali della personalità né semplici tratti emozionali o stati d'animo, tanto meno criteri per diagnosticare una patologia mentale, queste sei dimensioni rispecchiano le scoperte della moderna ricerca nel campo delle neuroscienze:

- Resilienza: misura la lentezza o la rapidità con cui ci riprendiamo dalle avversità;
- Prospettiva: misura la nostra capacità di mantenere nel tempo emozioni positive;
- Intuito sociale: misura l'abilità di cogliere i segnali sociali inviati dalle persone intorno a noi;
- Autoconsapeoolezza: misura la nostra capacità di percepire le sensazioni fisiche che riflettono le nostre emozioni;
- Sensibilità al contesto: misura la nostra capacità di modulare le reazioni emotive tenendo conto del contesto in cui ci troviamo;
- Attenzione: misura l'intensità e la chiarezza con cui siamo in grado di focalizzarci su un certo oggetto.

Probabilmente non sono le sei dimensioni che vi verrebbe naturale immaginare se vi fermaste a riflettere sulle vostre emozioni e a come esse potrebbero distinguersi da quelle degli altri. Allo stesso modo, il modello dell' atomo di Bohr non è probabilmente quello che vi verrebbe naturale immaginare se vi fermaste a riflettere alla struttura della materia. Con ciò non intendo mettere sullo stesso piano il mio lavoro e quello dei padri della fisica moderna, ma soltanto esprimere un concetto generale: è raro che la nostra mente riesca a stabilire le verità sulla natura, o su noi stessi, tramite l'intuizione o osservazioni casuali. È per questo che esiste la scienza. Solo grazie a esperimenti metodici e rigorosi, ripetuti un gran numero di volte, possiamo capire come funzionano il mondo e noi stessi.
Ho elaborato le sei dimensioni in base alle mie ricerche nel campo delle neuroscienze affettive, ricerche completate e corroborate dalle scoperte di colleghi in tutto il mondo. Queste dimensioni dello Stile Emozionale rivelano proprietà e pattern del cervello, cioè gli elementi indispensabili per elaborare qualsiasi modello comportamentale ed emotivo. Se le sei dimensioni non rispecchiano il modo in cui comprendete voi stessi e coloro che vi sono vicini, probabilmente è perché alcune agiscono a un livello non immediatamente evidente. Ad esempio, tendiamo a non essere consapevoli della nostra Resilienza. Con poche eccezioni, non prestiamo attenzione al tempo che ci è necessario per riprenderei da una situazione stressante. (Un' eccezione potrebbe essere un episodio estremamente traumatico, come la morte di un figlio: tutti saremmo fin troppo consapevoli della condizione di totale prostrazione in cui siamo caduti per mesi e mesi.) Eppure ne sperimentiamo le conseguenze. Ad esempio, se una mattina vi capitasse di litigare con il vostro partner, potreste sentirvi irritabili tutto il giorno, pur senza rendervi conto che la ragione per cui siete così scontrosi è che non avete recuperato l'equilibrio emotivo: questa è la caratteristica tipica dello Stile Emozionale che ho chiamato Lento a riprendersi. Nel capitolo 3 chiariremo come si possa accrescere la consapevolezza degli Stili Emozionali. Si tratta del primo e più importante passo da compiere per accettare ciò che siamo o per cambiare.
Secondo una regola empirica della scienza, ogni nuova teoria con cui intendiamo sostituire quella che l'ha preceduta deve essere in grado di spiegare, oltre a fenomeni nuovi, quelli che la vecchia teoria sapeva già spiegare. Perché venisse accettata come teoria della gravitazione più precisa e omnicomprensiva rispetto a quella proposta da Newton, la relatività generale di Einstein doveva spiegare tutti i fenomeni di cui già dava conto la gravità newtoniana, come le traiettorie dei pianeti attorno al sole e la velocità con cui gli oggetti cadono al suolo, e altri, come il fatto che la luce proveniente dal cielo venga deviata quando passa accanto a una stella di grande massa. Sono convinto che gli Stili Emozionali siano in grado di spiegare a sufficienza i tratti di personalità e i tipi temperamentali già noti; nel capitolo 4 vedremo come gli Stili Emozionali abbiano solide basi biologiche nel cervello, un aspetto che manca ad altre classificazioni.
È mia opinione che ogni personalità e temperamento individuali rispecchino una combinazione diversa delle sei dimensioni dello Stile Emozionale. Consideriamo la teoria dei «Big Five» , uno dei sistemi di classificazione standard usati in psicologia, secondo cui esistono cinque grandi tratti della personalità, e cioè apertura mentale, coscienziosità, estroversione, amicalità e stabilità mentale:

- una persona dotata di elevata apertura mentale possiede un forte intuito sociale, una notevole autoconsapevolezza e tende ad avere un' attenzione focalizzata;
- una persona coscienziosa ha un intuito sociale ben sviluppato, un'attenzione focalizzata e un'acuta sensibilità al contesto;
- una persona estroversa si riprende rapidamente dalle avversità e perciò si trova all' estremo superiore dello spettro di Resilienza («Rapido a riprendersi»). Inoltre, mantiene una prospettiva positiva;
- una persona amicale possiede un'acuta sensibilità al contesto e una forte Resilienza; e tende a mantenere una prospettiva positiva;
- chi ha un alto livello di nevroticismo, ovvero una bassa stabilità mentale, è lento a riprendersi dalle avversità, ha una prospettiva negativa, tetra, è relativamente insensibile al contesto e tende ad avere un'attenzione non focalizzata.

Se in generale le diverse combinazioni di Stili Emozionali che costituiscono ciascuno dei cinque tratti di personalità previsti dalla teoria dei «Big Five» mantengono la propria validità, ci saranno sempre delle eccezioni. Non tutti coloro che hanno una data personalità possiederanno tutte le dimensioni di un certo Stile Emozionale, ma ne avranno sicuramente almeno una.
Se andiamo oltre la teoria dei «Big Five», possiamo esaminare tratti di personalità a cui pensiamo tutti quando descriviamo noi stessi o qualcuno che conosciamo bene. Anche questi tratti possono essere interpretati come combinazioni di diverse dimensioni di uno Stile Emozionale, benché, ancora una volta, non tutti coloro che mostrano un certo tratto di personalità avranno tutte le dimensioni associate. Tuttavia, la maggior parte degli individui ne possiederà una buona parte:

- impulsivo: una combinazione di attenzione non focalizzata e bassa autoconsapevolezza;
- paziente: una combinazione di elevata auto consapevolezza e alta sensibilità al contesto. Sapere che, quando cambia il contesto, cambieranno anche altre cose, contribuisce a favorire un atteggiamento paziente;
- timido: una combinazione di bassa Resilienza e bassa Sensibilità al contesto. Come conseguenza dell'insensibilità al contesto, timidezza e circospezione vanno oltre le situazioni in cui risultano normali;
- ansioso: una combinazione di bassa Resilienza e Prospettiva negativa, con livelli elevati di Autoconsapevolezza e un Attenzione non focalizzata;
- ottimista: una combinazione di Resilienza elevata e Prospettiva positiva;
- infelice cronico: una combinazione di bassa Resilienza e Prospettiva negativa, con il risultato che una persona non è in grado di sostenere le emozioni positive e rimane impantanato in quelle negative dopo aver subito uno smacco.

Come si può notare, questi descrittori di tratti comuni sono costituiti da diverse permutazioni di Stili Emozionali. Una tale formulazione fornisce un modo per descrivere le probabili basi cerebrali dei tratti comuni.

Consultando la letteratura scientifica, si può avere l'impressione che i ricercatori si concentrino su una certa questione, progettino un esperimento per trovare una risposta e conducano uno studio che svelerà loro la verità, senza incontrare ostacoli. Non è così. Ho il sospetto che molti di voi lo sappiano già, ma ciò che non è noto a tutti, persino tra coloro che leggono con grande interesse i resoconti scientifici di carattere divulgativo, è quanto sia difficile mettere in discussione un paradigma invalso. Era questa la posizione in cui mi trovavo nei primi anni Ottanta. In quel periodo il mondo accademico relegava lo studio delle emozioni quasi esclusivamente all' ambito della psicologia sociale e della personalità, escludendolo da quello della neurobiologia; erano pochi i ricercatori interessati a studiare le basi neurologiche delle emozioni. Quel minimo d'interesse esistente favoriva le ricerche sui cosiddetti centri cerebrali delle emozioni, che allora si pensava coinvolgessero esclusivamente il sistema limbico. Personalmente avevo un'idea molto diversa: ritenevo che le funzioni corticali superiori, in particolare quelle situate in una struttura avanzata dal punto di vista evoluzionistico come la corteccia prefrontale, fossero fondamentali per le emozioni.
Quando suggerii per la prima volta che la corteccia prefrontale svolgesse un ruolo nelle emozioni, la mia idea fu accolta da una serie interminabile di giudizi scettici. La corteccia cerebrale, affermavano con insistenza i miei colleghi, è la sede della ragione, l'antitesi delle emozioni. Perciò era escluso che potesse avere un ruolo anche nelle emozioni. Cercare di costruirmi una carriera scientifica quando le teorie predominanti andavano tutte nella direzione opposta alla mia fu un'impresa solitaria. La mia ricerca delle basi delle emozioni nella sede cerebrale della ragione era considerata a dir poco donchisciottesca, l'equivalente in ambito neuroscientifico della caccia agli elefanti in Alaska. In non poche occasioni, soprattutto agli inizi, quando mi battevo per ottenere finanziamenti, il mio scetticismo nei confronti della divisione classica tra pensiero (nella neo corteccia altamente evoluta) ed emozioni (nel sistema limbico sottocorticale) sembrava un buon modo per stroncare una carriera scientifica, non per iniziarla.
Se le mie inclinazioni scientifiche costituivano una mossa tutt' altro che astuta per la carriera, altrettanto valeva per i miei interessi personali. Negli anni Settanta, poco dopo essermi iscritto come specializzando ad Harvard, conobbi un gruppo di persone gentili e affettuose che, come scoprii presto, avevano qualcosa in comune: praticavano tutti la meditazione. Quella scoperta catalizzò il mio interesse allora embrionale per la meditazione al punto che, alla fine del secondo anno di specializzazione, trascorsi tre mesi in India e nello Sri Lanka per approfondire le mie conoscenze su questa antica tradizione e sperimentare a quali risultati avrebbe potuto portare tale pratica. Un'altra cosa mi spinse a intraprendere quel viaggio: volevo capire se la meditazione potesse essere un argomento idoneo per una ricerca scientifica.
Se studiare le emozioni era già una scelta problematica, praticare la meditazione era un'eresia, e studiarla equivaleva a pregiudicare qualunque successo scientifico. Così come erano convinti che ci fossero aree cerebrali riservate alla ragione e altre aree preposte alle emozioni, e che le une non avessero nulla in comune con le altre, in ambito accademico psicologi e neuroscienziati ritenevano che da un lato ci fosse la rigorosa scienza empirica, e dall' altro la paccottiglia pseudoscientifica della meditazione; e se praticavi quest'ultima, la tua buonafede di scienziato era fortemente sospetta.
Erano gli anni in cui uscirono Il Tao della fisica (1975), La danza dei maestri Wu Li (1979) e altri libri in cui si sosteneva l'esistenza di stretti rapporti tra le scoperte della moderna scienza occidentale e le intuizioni delle antiche filosofie orientali. Per la maggior parte degli scienziati si trattava di robaccia; dedicarsi alla meditazione e frequentare i miei colleghi non era, devo ammetterlo, la via migliore per raggiungere il successo accademico. I miei mentori ad Harvard mi fecero capire in maniera molto chiara che, se volevo intraprendere una brillante carriera scientifica, studiare la meditazione non era il punto preferibile da cui partire. Pur dilettandomi in ricerche sulla meditazione nella prima parte della mia carriera, quando capii quanto fossero radicate le resistenze contro quel tipo di studi, le misi da parte. Continuai tuttavia a dedicarmi alla meditazione in privato e alla fine - dopo aver ottenuto un incarico permanente alla University of Wisconsin ed essermi guadagnato una certa credibilità grazie a una lunga serie di pubblicazioni scientifiche e di riconoscimenti - ripresi a occuparmene come materia di studio scientifico.
Una ragione importante di questa decisione fu l'incontro con il Dalai Lama nel 1992. Questo episodio cambiò radicalmente il corso della mia carriera e la mia vita personale. Come spiegherò nel capitolo 9, quell'incontro fu la scintilla che mi convinse a non nascondere più il mio interesse per la meditazione e per altre forme di training mentale.
È impressionante notare quante cose sono cambiate nel breve periodo in cui mi sono occupato di questi temi. In meno di vent' anni, la comunità scientifica e medica è diventata molto più ricettiva nei confronti delle ricerche sul training mentale. Oggi gli articoli che vengono pubblicati ogni anno dalle più prestigiose riviste scientifiche sono migliaia (devo dire che mi divertì parecchio il fatto che il primo di questi articoli ad apparire su un periodico austero come i Proceedings of the National Academy of Science, nel 2004, fosse firmato da alcuni miei colleghi e da me) e il National Institutes of Health destina grossi finanziamenti alle ricerche sulla meditazione. Soltanto un decennio fa sarebbe stato impensabile.
Ritengo che questo cambiamento sia un'ottima cosa, e non per un senso di rivalsa personale (anche se devo ammettere che è gratificante vedere un argomento tenuto ai margini della scienza ricevere finalmente il rispetto che merita). Nel 1992 feci due promesse al Dalai Lama: avrei studiato personalmente la meditazione e avrei cercato di condurre ricerche su emozioni positive come la compassione e il benessere, in quanto argomenti centrali in ambito psicologico tanto quanto lo erano state per lungo tempo le emozioni negative.
Ora queste due promesse si sono unite, e con loro la mia donchisciottesca convinzione che la sede cerebrale della ragione e delle funzioni cognitive d'ordine superiore rivesta un ruolo importante per le emozioni quanto quello svolto dal sistema limbico. Le mie ricerche su soggetti che praticano la meditazione hanno dimostrato che il training mentale può alterare i pattern cerebrali rinforzando 1'empatia, la compassione, 1'ottimismo e il senso di benessere. Con questo ho mantenuto fino in fondo la promessa di studiare la meditazione e le emozioni positive. Inoltre, le mie ricerche nell'ambito delle neuroscienze affettive più convenzionali hanno dimostrato che proprio le sedi del ragionamento d'ordine superiore custodiscono la chiave per modificare i pattern d'attività cerebrale.
Perciò, se è vero che questo libro racconta la mia trasformazione personale e scientifica, la mia speranza è che vi offra una guida per la vostra trasformazione. In sanscrito, il termine che sta per meditazione significa anche «atto di familiarizzare». Acquistare familiarità con il proprio Stile Emozionale è il primo passo, e il più importante, per modificarlo. Se con questo libro riuscissi anche solo ad accrescere la consapevolezza del vostro Stile Emozionale e di quello delle persone che vi stanno vicine, lo considererei un successo.

INDICE

Introduzione. Un'indagine scientifica

Capitolo 1. Un solo cervello non è adatto a tutti
Le sei dimensioni
Fuori dal coro
Mente e cervello
Siete perfetti: è ora di cambiare

Capitolo 2. La scoperta degli Stili Emozionali
Sogni d'oro
Harvard
Un colpo di genio
Sinistro, destro, sinistro, destro
Excedrin Emicrania, l'analgesico numero uno
Storie di nastri e di misure
Risposte dal cervello dei bambini
Un cervello depresso
Differenze individuali

Capitolo 3. Determinare il proprio Stile Emozionale
La dimensione Resilienza
La dimensione Prospettiva
La dimensione Intuito sociale
La dimensione Autoconsapeoolezza
La dimensione Sensibilità al contesto
La dimensione Attenzione

Capitolo 4. Le basi cerebrali dello Stile Emozionale
Il cervello resiliente
Il cervello Socialmente intuitivo
Il cervello Sensibile al contesto
Il cervello autoconsapevole
Cervello e Prospettiva
Il cervello attento

Capitolo 5. Come si sviluppa lo Stile Emozionale
DNA emozionale
Timidi si nasce o si diventa?
I.;effetto della cultura sulla natura
Entra in scena Robie
Puf/! E il temperamento non c'è più
E i miti erediteranno ... l'audacia

Capitolo 6. Il rapporto mente-cervello-corpo, ovvero come lo Stile Emozionale influisce sulla salute
Medicina comportamentale
Non ammalarti, siifelice?
Il Botox e il collegamento tra corpo e cervello
Asma: un modello per i collegamenti tra mente, cervello e corpo
Stili Emozionali e immunità
Il nesso tra cuore e cervello
La mente incarnata

Capitolo 7. I concetti di normale e anormale, e quando «diverso» diventa patologico
Disturbi mentali su base neurale
Lo spettro autistico
Se non guardi, non puoi vedere
Tutto in famiglia
Una tassonomia cerebrale della depressione
La depressione e la dimensione Prospettiva
La strada giusta
Lo stile Attenzione e il disturbo da deficit d'attenzione con iperattività

Capitolo 8. La neuroplasticità
Dogmi immutabili
Le scimmie di Silver Spring
Vedi il tuono, ascolta il lampo
La neuroplasticità in ambito clinico
Il potere della mente
Capitolo 9. Uscire allo scoperto
Viaggio in India
La meditazione incontra la scienza
I monaci in laboratorio

Capitolo 10. Il monaco dentro la macchina
Ridurre lo stress con la mindfulness
Un ritiro di ricerca e meditazione
È possibile allenare la compassione?
Concentrazione, prego, Rinpoche
La gentilezza amorevole nel tubo (della risonanza)
Accelerare la compassione

Capitolo 11. Come ricablare il cervello, ovvero alcuni esercizi «neurologici» per cambiare il proprio Stile Emozionale
Prospettiva
Autoconsapeuolezza
Attenzione
Resilienza
Intuito sociale
Sensibilità al contesto
Cambiare il cervello trasformando la mente

Ringraziamenti

Note