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LA QUESTIONE DELLA TOLLERANZA E LE CONFESSIONI RELIGIOSE - Atti del convegno di studi: Roma 3 Aprile 1990

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Descrizione
Autore: GIURISTI E RELATORI VARI
Formato:  16,5 X 23,5
Pagine: 310
Anno: 1991
Editore: JOVENE EDITORE

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L'Autore -
GIURISTI E RELATORI VARI

LA QUESTIONE DELLA TOLLERANZA E LE CONFESSIONI RELIGIOSE - Atti del convegno di studi: Roma 3 Aprile 1990

PREFAZIONE

Il fatto dell'intolleranza nei confronti delle più varie manifestazioni del fenomeno religioso che, nel nostro paese, mai completamente sopito per la indubbia prevalenza di una larga maggioranza di cattolici, sembra aver ripreso quota in episodi ripetutisi in questi ultimi anni, ha costituito l'oggetto dell'indagine e della documentazione molto analitica contenute nel volume «Intolleranza religiosa alle soglie del duemila» a cura dell' Associazione europea dei Testimoni di Geova, Roma 1990.
Sui temi offerti dal volume si è svolto il dibattito che qui presentiamo, riportando tutti gli interventi.

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È fin troppo noto che tutta la problematica relativa alla fenomenologia religiosa, ma non soltanto ad essa, in una democrazia pluralistica come la nostra, si incentra nel nodo da sciogliere intrecciato dal valore da riconoscere al principio maggioritario, come corollario tradizionalmente e comunemente accettato della democrazia in genere, e dal valore del pluralismo e dell'uguaglianza che denota il tipo di democrazia prefigurato dalla nostra Costituzione repubblicana. Ma, nella specie fenomenica che ci riguarda, il tributo alla maggioranza è già costituzionalmente pagato con il diverso statuto assicurato alla Chiesa cattolica rispetto a quello delle altre confessioni religiose. Ne deriva che, fuori dalla specialità appena indicata, tutte le manifestazioni della fenomenologia religiosa vanno direttamente commisurate ai principi costituzionali che presiedono in materia ai diritti individuali (art. 2 e art. 19) e ai diritti degli stessi gruppi confessionali (artt. 2 e 8 Cost.).

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Non c'è dubbio che il disposto dell'art. 2 Cost., che è, ad una, espressione del principio personalistico e di quello pluralistico, abbia inteso elevare le formazioni sociali a soggetti di diritto costituzionale, conferendo ad esse la titolarità delle situazioni di libertà (e doverosità) riconosciute ai singoli, qualificandole come inviolabili (e inderogabili). Al tempo stesso l'art. 19 Cost., riconoscendo la libertà di professione del sentimento religioso in forme singole e associate, va collegato con la eguaglianza e la tutela assicurate dall' art. 8 a tutte le confessioni religiose. Senza pensare che anche la manifestazione del sentimento e delle convinzioni religiose sono già protette dal più generale principio di libertà del pensiero (art. 21 Cost.), il quale a sua volta rafforza, in principio, la doverosa neutralità dello Stato rispetto al contenuto di qualsiasi esternazione del pensiero con qualsiasi mezzo e in qualsiasi forma o circostanza essa sia praticata.
Ne risulta perciò, senza il minimo dubbio, il principio fondamentale del pluralismo religioso, ideologico, culturale e confessionale, che ha coerentemente indotto la Corte ad affermare, per un verso, che lo Stato non ha da imporre «valori propri, contenuti ideologici che investono tutti i cittadini e 'totalmente' ogni singolo cittadino» (sent. 189/1987) e per altro verso, con più specifico riferimento alla nostra materia, il principio supremo di laicità dello Stato (cche implica non indifferenza dello Stato dinanzi alla religione ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione in regime di pluralismo confessionale e culturale»: sento 203/1989). E tuttavia proprio questo principio fondamentale risulta, non ostanti tali solenni ed autorevolissime affermazioni, profondamente inciso in senso restrittivo nell'attuale momento storico.
Ora, nel ricercare le ragioni, oltre che politiche e sociali, soprattutto giuridiche, di un tale «regresso», non può non rilevarsi la perdurante non integrale attuazione dell'art. 8 Cost., particolarmente rilevante nei confronti di quelle confessioni che, pur avendo insistentemente prospettato le proprie esigenze e quindi richiesto una negoziazione della disciplina dei loro rapporti con lo Stato, non hanno ottenuto alcun concreto risultato. È fin troppo evidente che tale non integrale attuazione, specialmente in considerazione dell' evenienza appena ricordata (quella delle richieste andate deluse), oltre che costituire una ingiustificata specifica violazione dell'art. 8 u.c. Cost., suscita le più serie perplessità relativamente al rispetto del principio di uguale libertà di tutte le confessioni religiose.

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D'altra parte, la mancata o parziale attuazione dell' art. 8, mentre incide negativamente sulla libertà e autonomia costituzionalmente garantite alle confessioni religiose che non hanno ottenuto l'intesa con lo Stato, finisce per riflettersi indubitabilmente sulla stessa libertà religiosa dei singoli che ad esse partecipano e che ne costituiscono la dimensione soggettiva, libertà che è quella in fin dei conti che le disposizioni costituzionali sono rivolte più direttamente e intensamente a tutelare. Bisogna, a questo proposito, osservare che, in aggiunta al riconoscimento dei classici diritti inviolabili individuali ai soggetti dell' ordinamento, la Costituzione riconosce e garantisce pure i singoli in ragione di loro status o posizioni particolari, tra le quali rientra indubbiamente quella dell' appartenenza alle confessioni religiose.
Qui la tutela costituzionale assume anzi una duplice configurazione come garanzia costituzionale nei confronti tanto dei singoli nel gruppo, quanto dei gruppi come tali. Ora, se il primo aspetto non viene in considerazione ai nostri fini, è il secondo che appare rilevantissimo. La Costituzione nel prevedere che le confessioni hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti... riconosce, senza alcun dubbio, gli stessi come ordinamenti giuridici, e non importa qui stabilire se essi possano configurarsi come propriamente derivati o se viceversa conservino, anche dal punto di vista statuale, la loro indiscutibile originarietà, quel che preme invece mettere in rilievo è che la tipizzazione operata dalla Costituzione li contrappone en bloc in posizione paritaria al solo ordinamento della Chiesa cattolica.


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Ma che cosa è avvenuto in realtà? La perdurante applicabilità alle sole confessioni che non sono riuscite a stipulare una intesa con lo Stato della legislazione «fascista» del 1929 (a parte i problemi di compatibilità con la Costituzione repubblicana che essa di per sé suscita) ha determinato una inammissibile scissione tra le stesse e le confessioni ormai dotate di intesa, per cui può ben parlarsi - fuori da ogni disegno costituzionale - di una tripartizione ternaria delle confessioni religiose o, se si vuole, di una posizione binaria preminente della Chiesa e delle confessioni in regime di intesa (per le quali il legislatore, statale e regionale, ha conseguentemente adottato particolari trattamenti di favore) rispetto alle altre. Le conseguenze che se ne traggono non determinano soltanto un insanabile contrasto con i principi costituzionali fondamentali, ma finiscono per stravolgere la stessa fisionomia dell'intesa che, in luogo di costituire un istituto di garanzia per l'attuazione del principio di libertà ed eguaglianza, si pone come strumentale alla creazione di particolari ed esclusive situazioni di privilegio.

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Ma, anche ove le iniziative statali e regionali in favore dell'attuale duplice categoria (Chiesa cattolica e confessioni dotate di intesa) non vi fossero state, ovvero pure si fossero rivolte - come pure in effetti talora è accaduto - in favore di tutte indistintamente le confessioni religiose, la non integrale attuazione dell' art. 8 Costo avrebbe pur sempre comportato (come in realtà oggi comporta) profonde diseguaglianze tra confessioni e confessioni e tra i singoli appartenenti all'una o all'altra: a principi religiosi eventualmente identici proclamati e professati da diverse confessioni religiose e riconosciute dalla Costituzione su un piano di parità si oppone un diverso e ingiustificato regime giuridico discriminatorio, con conseguente rilevanza degli stessi principi per alcune di esse e corrispondente disconoscimento per altre.
Basti ricordare un solo esempio. L'art. 4 dell'intesa siglata il 29 dicembre 1986 tra la Repubblica italiana e la Chiesa ristiana avventista del 7° giorno, per motivi di fede contraria all'uso delle armi, prevede una disciplina della materia che, da qualsiasi angolatura la si voglia più propriamente riguardare, è comunque derogatoria delle disposizioni della legge 772/1972, la quale trova invece integrale applicazione per altre confessioni, nonostante che queste, come ad es. quella dei Testimoni di Geova, assumano come valore centrale gli stessi principi ed abbiano per di più proposto, nella bozza di Intesa presentata al Ministero dell'Interno, una soluzione bilanciata del potenziale conflitto tra beni costituzionalmente protetti (diritti di libertà e doveri di solidarietà politica e sociale).
Ma gli esempi, come è ovvio, e come risulta da una lettura delle intese siglate, potrebbero moltiplicarsi.

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E allora, se è pur vero che la libertà religiosa non e Incompatibile in astratto con il diverso trattamento giuridico delle confessioni - che è anzi postulato dallo stesso art. 8 Cost., nel senso, si badi bene, che le diverse confessioni possono presentare, come in effetti presentano, differenti istanze allo Stato fondate sulle proprie norme e sui propri convincimenti e valori che possono coincidere come possono pure profondamente divergere - è altrettanto indiscutibile che la diseguaglianza che oggi si è venuta a determinare tra le confessioni, essendo del tutto indipendente dalla «volontà» diqueste ultime, finisce invece per violare la stessa libertà religiosa unita mente ad altre libertà.
È del resto altresì indubitabile che la effettiva disparità di trattamento tra le varie confessioni si pone in contrasto con il principio della «uguale libertà» e con il conclamato pluralismo confessionale che presuppongono l'eguaglianza delle opportunità o, al più, una equilibrata distribuzione di esse e finisce per riflettersi sulla posizione dei singoli, alterando le rispettive possibilità di realizzazione sociale. Tutto ciò non sembra proprio in armonia con il fondamentale principio personalistico, che presiede al riconoscimento non soltanto dei tradizionali diritti personali e della «libertà negativa», ma che si in centra sul valore, caratteristico dei sistemi di democrazia pluralistica, come il nostro, della «libertà positiva», come libertà di auto determinazione o autorealizzazione della persona. Non vi è dubbio, sotto questo ultimo rispetto, che nella libertà religiosa, ancor più manifestamente forse che in altri diritti inviolabili, si rispecchiano in perfetto equilibrio le due dimensioni essenziali della libertà contemporanea.


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In questo quadro di discipline attualmente vigenti e, come si è mostrato,gravemente discriminatorie, è stata prospettata una soluzione del problema, che sembra recepita dalle forze di maggioranza, e che potrebbe concretizzarsi .nella proposta di una «legge quadro», la quale, modificando la legislazione «fascista» del 1929/1930, introduca una disciplina generale che dovrebbe riguardare certamente le confessioni religiose che non abbiano ottenuto una intesa, ma che potrebbe altresì estendersi alle altre già «dotate» di intesa.
Indipendentemente dai possibili (ma non certo scontati) risultati perequativi che con una simile legge si intendono e si potrebbero ottenere, i dubbi di legittimità costituzionale non sarebbero affatto superati, ma al contrario si aggraverebbero.
Il dibattito nella tavola rotonda ha preso posizione nella maggior parte degli interventi sostanzialmente in senso sfavorevole nei confronti di una simile legge. Il coinvolgimento nella disciplina unitaria travolgerebbe le leggi di intesa già adottate? E, per converso, la legge quadro, una volta entrata in vigore, potrebbe non consentire o comunque limitare le nuove intese che fossero sollecitate dalle confessioni che attualmente ne sono sprovviste? Ma, di là da tali imprescindibili interrogativi, è la stessa legge quadro, nella nostra materia, che non sembra trovare una sufficiente giustificazione costituzionale, ma che anzi sembra contraddire innanzi tutto la ratio dello stesso art. 8 che, inspirata al principio del pluralismo confessionale, comporta discipline diverse e distinte, secondo ciascun gruppo religioso, dei rispettivi rapporti con lo Stato, ottenibile mediante la diretta negoziazione tra le parti, nel quadro dei principi costituzionali e non in quello di principi legislativi unilateralmente e unitariamente assunti.
Tra l'altro, una legge quadro, per definizione, è legge generale che mal si adatterebbe al geloso particolarismo proprio di ogni fede o credenza religiosa.

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Potrebbe peraltro - superando gli interrogativi avanzati in precedenza - ipotizzarsi che la legge generale non escluda, ma anzi, proprio in quanto tale, faciliti sulla sua base la possibile adozione di intese e consenta il mantenimento (o il ridimensionamento?) di quelle già stipulate. Ma - nei confronti delle possibìh Intese tuture da stipulare - resterebbe in piedi comunque l'alternativa: o la legge quadro opererebbe una sorta di deminutio di tali possibili intese con dubbia coerenza con il sistema delineato dall' art. 8 (che, pur ammettendo che lo Stato non possa mai rinunciare ai suoi principi nel vagliare le richieste confessionali, non prevede certamente che esso possa in generale e una tantum fissare una tavola di tali principi con valenza unitaria e omogenea per tutte le confessioni) ovvero la legge, aprendosi alla disponibilità o alla piena derogabilità delle sue norme da parte delle clausole eventualmente concordate, risulterebbe priva di una sua effettiva giustificazione.
Del resto, anche ove si limitasse a riformulare in misura maggiormente aderente al dettato costituzionale le disposizioni della legge del 1929, è indubbio che essa si porrebbe in contrasto con il divieto costituzionale di una regolamentazione giurisdizionalistica (unilaterale) dei rapporti tra Stato e confessioni religiose. Ove, invece, come si è pure adombrato in sede politica, si limitasse semplicemente ad abrogarla, essa non solo perderebbe del tutto la sua fisionomia di legge quadro - a tanto basterebbe una leggina meramente abrogativa - ma potrebbe risultare del pari in costituzionale, sia nei confronti del sistema delle intese (art. 8 U.c. Cost.) ove, in man- canza di una diversa e più coerente attuazione, lo si ritenesse, come del resto si è sostenuto, addirittura rafforzativo della legge del 1929, sia in quanto, nella illustrata situazione attuale, renderebbe operante il diritto comune nei confronti delle sole confessioni prive di intesa.

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Se, invece - come pure nello stesso contesto politico si è affermato, assai sibillinamente peraltro - la stessa legge si limitasse a disciplinare «la libertà religiosa e l'eguaglianza di tutti i cittadini» religiosi, irreligiosi, atei, essa non potrebbe non suscitare ancora maggiori perplessità, non solo per la eventuale eterogeneità del contenuto, stante la reciproca irriducibilità delle categorie dei soggetti implicati, ma soprattutto perchè non sembra che la normativa costituzionale in materia di libertà abbisogni di mediazioni legislative specialmente se di carattere generale. Va ribadito, al contrario, che nel nostro sistema costituzionale il principio personalistico, unitamente a quello della pari libertà, richiedono l'adozione di leggi particolari derogatorie della normativa generale che disciplinino doveri o obblighi costituzionalmente previsti (così come è avvenuto ed es. per l'aborto, per il giuramento e, sia pure in misura restrittiva, per il servizio militare) al fine di bilanciare diversi ma compresenti diritti e valori costituzionalmente protetti salvaguardando al contempo l'eguaglianza (e le pari opportunità) di tutti i cittadini.

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In conclusione, sia che lo si voglia trarre dal solo 3° co. dell' art. 8, sia che, preferibilmente, lo si voglia desumere dal disposto combinato con l'art. 7 cpv. Cost., esiste fermissimo e da lungo tempo incontestatamente sottolineato, nel nostro ordinamento, un principio di pluralismo confessionale riconosciuto e che si esplica attraverso intese tra autorità statali e rappresentanti delle confessioni o, più in generale, un principio pattizio che deve informare la disciplina dei rapporti tra Stato e confessioni religiose, senza distinzione tra la Chiesa cattolica e le confessioni acattoliche.
Un lunghissimo «immobilismo legislativo», come diceva D'Avack, ha nondimeno caratterizzato la realtà italiana per ben trenta cinque anni.
Interrotto di recente - negli anni 1984-1987 - con la stipulazione (e successiva approvazione parlamentare) delle intese con le Chiese rappresentate dalla Tavola Valdese (1984, 1. 11-8-1984 n. 449), con l'Unione italiana delle Chiese avventiste del 7° giorno (1986, l. 22-11-1988 n. 516), con le Assemblee di Dio in Italia (1986, l. 22-11-1988 n. 517) e con l'Unione delle Comunità israelitiche italiane (1987, l. 8-3-1989 n. 101), l'immobilismo legislativo si è tramutato in quella che un po' enfaticamente è stata denominata l'«era delle intese». Sembrava dunque che nessun dubbio potesse più nutrirsi circa l'esatta interpretazione dell' art. 8, terzo comma, Costo come escludente l'ammissibilità (e quindi la legittimità costituzionale) d'una legislazione generale sulle confessioni religiose senza che fosse stata stipulata, in precedenza, alcuna intesa.
L'attualità del dubbio sembra ora riproposta dalla volontà dello Stato di non stipulare nuove intese - malgrado il crescente numero di appartenenti a confessioni religiose acattoliche prive di intesa: basti pensare ai Testimoni di Geova, che per numero di adepti è la seconda religione in Italia; o ai musulmani, in continuo e progressivo aumento a causa della forte immigrazione, e del successivo acquisto della cittadinanza, di lavoratori provenienti dai paesi arabi.
È vero bensì che discriminazioni nei riguardi delle minoranze religiose sono precluse dal generale principio di libertà religiosa (oltre che dal principio di eguaglianza) più che non dalla consistenza numerica degli adepti, poichè sarebbe privo di razionale giustificazione discriminare tra le varie confessioni sulla base della considerazione del maggiore o minore numero degli appartenenti (Corte cost. 925/1988) e sarebbe contrastante con il principio supremo di laicità dello Stato (enunciato più di recente da Corte cost. sent. 203/1989). E tuttavia l'aumento numerico degli appartenenti alle varie confessioni diverse dalla cattolica e prive di intesa impone la necessità e l'indifferibilità di proseguire sulla strada delle intese che la Costituzione addita come obbligatoria, complementare e non contrastante con i principi di libertà religiosa, di eguaglianza e di laicità.
L'orientamento governativo alla presentazione di un d.d.l. diretto a disciplinare i rapporti con le confessioni religiose prive di intesa è dunque, nella migliore delle ipotesi, frutto di un equivoco, tanto più in presenza dello sviluppo, negli ultimi anni, di una legislazione di favore, statale e regionale, nei riguardi dei culti per i quali l'intesa è stata raggiunta.
Una volta che il legislatore statale ha intrapreso la via delle intese, non è soltanto inopportuno, ma costituzionalmente illegittimo (per contrasto proprio con i principi di eguaglianza, di libertà religiosa e di laicità, oltre che con il principio pattizio) che esso si arresti e non vada incontro, almeno, a quelle confessioni che tali intese abbiano sollecitato.
Proprio per il rispetto dovuto al principio di eguaglianza e ai diritti inviolabili dell'uomo nelle formazioni sociali, non può assolutamente emanarsi una legislazione uniforme per tutte le confessioni prive di intesa, almeno fino a che non siano state stipulate tutte le intese effettivamente richieste dalle confessioni che ne sono prive o non sia stata accertata l'impossibilità di stipularle (o, che è lo stesso, la volontà dei rappresentanti delle confessioni di non volerle più stipulare nei termini in cui lo Stato pretendesse di imporle).

Roma, giugno del 1990

FRANCO MODUGNO - ROSALIA D'ALESSIO

INDICE

Premessa 5
Prof. Franco Modugno - Prof. Rosalia D'Alessio, Prefazione 7
Prof. Giuseppe Ferrari, Introduzione 19
Prof. Pasquale Colella, Considerazioni generali sull'intolleranza religiosa in Italia alle soglie del duemila 25
Prof. Piero Bellini, Riflessioni sulla idea di laicità 37
Avv. Mauro Mellini, Intervento 65
Prof. Pietro Rescigno, Sul c.d. 'diritto all'intesa' 75
Prof. Silvano Labriola, Della intolleranza religiosa: le intese secondo l'articolo 8 della Costituzione tra ostruzionismi del Governo e rimedi possibili 81
Prof. Paolo Barile, Intervento 93
Prof. Sergio Lariccia, Nuove tecniche dei pubblici poteri per ostacolare l'esercizio dei diritti di libertà delle minoranze religiose in Italia 97
Prof. Silvano Labriola, Intervento 117
Dott. Fulvio Rocco, Intervento 121
Dott. Ignazio Barbuscia, Una parità di trattamento per superare l'intolleanza religiosa 123
Dott. Flora Marzano, Il diritto comune delle intese 131
Dott. Giancarlo Zizola, Le nuove intolleranze 147
Dott. Giovanni Long, Le parallele che non si incontrano mai: legislazione sull'obiezione di coscienza e Testimoni di Geova 163
Prof. Augusto Cerri, Critica del criterio di ragionevolezza come limite alla libertà religiosa. Limite dell'ordinamento giuridico come norma di
rinvio ai valori costituzionali. Iniziativa parlamentare in tema di disciplina dei culti acattolici 177
Prof. Pietro Spirito, Pari libertà delle confessioni religiose e «omogenei» regimi giuridici di rapporti con lo Stato italiano 185
Avv. Mauro Mellini, lnteruento 193
Prof. Piero Bellini, lnteruento 197
Prof. Sergio Lariccia, lnteruento 209