LA GUERRA GIUDAICA - VOLUME 1 e 2

LA GUERRA GIUDAICA - VOLUME 1 e 2

Giovanni VitucciL'Autore GIOVANNI VITUCCI , è stato professore all'università di Roma. Ha scritto due libri: L'imperatore Probo e Il regno di Bininia, oltre a molti articoli su problemi storici e istituzionali dell'età repubblicana e imperiale.

L'Autore NATALINO RADOVICH è professore di filologia all'Università di Padova. Ha scritto un Profilo di linguistica slava, un Glossario dello slavo ecclesiastico antico, e studi sui rapporti tra la letteratura bizantina e la letteratura russa antica.


FLAVIO GIUSEPPE
, testimone oculare,
descrive come Vespaviano e poi Tito
effettuano una carneficina di 1.100.000 morti a Gerusalemme nel 70 e.v.

La Guerra giudaica1 2

RISVOLTO COPERTINA

Nato a Gerusalemme nel 37 dopo
Cristo, Flavio Giuseppe discendeva da una famiglia di grandi sacerdoti ebrei. Per qualche tempo, diresse la resistenza del suo popolo contro i romani: poi cadde prigioniero, collaborò con i nemici, predisse l’ascesa al trono di Vespasiano; e per tutta la vita fu combattuto fra il profondo amore per il Dio di Israele, il tempio di Gerusalemme, i riti amorosamente coltivati e conservati, e la convinzione che la Provvidenza aveva ormai scelto l'immenso, maestoso e armonico impero di Roma.

  La guerra giudaica, scritto prima in aramaico poi in greco, è uno dei libri più drammatici della storiografia universale. Il lettore moderno vi trova lo stesso paesaggio di città, di campagne e di deserti, dove pochi decenni prima aveva predicato Gesù Cristo: penetra nel Tempio, apprende i riti e le abitudini degli Esseni, la filosofia politica degli Zeloti, conosce lo stesso mondo che ci è stato recentemente rivelato dai manoscritti del Mar Morto. La prima parte del libro è dedicata ai delitti che funestarono la famiglia di Erode; e l'intreccio tra la passione per il potere e gli amori e gli odi egualmente sanguinari fra parenti ricorda le tragedie storiche di Shakespeare.

   Ma il cuore dell'opera
è la lotta del piccolo popolo ebreo, guidato dalla fazione degli Zeloti, contro le legioni di Vespasiano e di Tito. Una delle più terribili tragedie della storia di ogni tempo rivive davanti ai nostri occhi: esempi di coraggio disperato, di straordinaria astuzia guerriera e di folle fanatismo rivoluzionario: scene di battaglia, lunghissimi assedi, fame, saccheggi, prigionieri crocifissi, inermi massacrati, gli ultimi difensori che si uccidono a vicenda con le spade, fino al momento - che Flavio Giuseppe rievoca lacrimando - in cui il Tempio, simbolo della tradizione ebraica, viene avvolto dalle fiamme di un incendio inestinguibile.

  Questa edizione traduce, nell'appendice a cura di Natalino Radovich, anche i frammenti dell'antica versione russa della Guerra giudaica, che mancano nel testo greco. In alcuni di questi frammenti, appare Gesù Cristo: secondo alcuni studiosi, si tratterebbe della più antica testimonianza d'ambiente ebraico intorno al Messia.

INTRODUZIONE

  Giuseppe (più tardi, quando ebbe la cittadinanza romana, Flavio Giuseppe) appartenne a quella generazione di giudei cui, mentre si appressavano al «mezzo del cammino », toccò di vedere la distruzione di Gerusalemme e la rovina del tempio. A Gerusalemme egli era nato fra il 13 settembre del 37 e il I7 marzo del 38: troppo tardi per rendersi conto dell'ansia disperata di cui la città fu preda intorno al 40, quando da Roma arrivò l'ordine di collocare nel tempio, e fame oggetto di culto, un'immagine di Caligola. Superata, all'avvento di Claudio, la grave tensione, la vita era ripresa nella più o meno generale rassegnazione agli incomodi del dominio romano, e Giuseppe potè intraprendere gli studi in un'atmosfera meno agitata. Più tardi, rievocando nell'ultima pagina dell' Archeologia quei suoi studi e tutta la sua formazione spirituale, egli distinse tra lo studio della grammatica e della lingua greca (della quale tuttavia confessava di non aver raggiunto una pronuncia perfetta: la sua lingua materna era l'aramaico) e quella che chiamava la paideia epichtòrios, paideia propriamente giudaica: una paideia, aggiungeva, nella quale, per ammissione dei suoi connazionali, andava innanzi ad ogni altro. In ogni modo, la preparazione di Giuseppe fu adeguata al suo elevato rango sociale; la sua era infatti una delle famiglie più cospicue, appartenente per parte di padre all'alta nobiltà sacerdotale mentre per parte di madre egli si gloriava di discendere dalla famiglia reale degli Asmonei In questa preparazione lo studio della Legge aveva una parte di primo piano, e non v'é ragione di non prestargli fede quando egli aggiunge di aver fatto, grazie alla sua non comune memoria e intelligenza, tali progressi, che al tempo in cui era solo un giovinetto di quattordici anni alcuni sommi sacerdoti e altre personalità di primo piano si recarono da lui a consultarlo

Il quindicesimo anno di vita fu speso in una diretta sperimentazione delle regole teorico-pratiche seguite dalle tre sette che allora tenevano il campo, i Farisei, i Sadducei e gli Esseni, con l'intenzione di prepararsi ad una scelta. Dai rapidi cenni della Vita (2,10) si ricava l'impressione che si sia trattato di una frequentazione cursoria, con una permanenza meno breve presso gli Esseni, cui Giuseppe sembra alludere quando narra di essersi sottoposto a un duro tirocinio, passando attraverso una serie di prove molto severe. Assai più lunga fu invece l'esperienza ascetica vissuta nei tre anni successivi, quando si ritirò nel deserto a far vita di penitenza; il fatto che Giuseppe ricorda anche il nome del maestro che gli fu allora di guida lascia pensare che per lui si trattò di un impegno superiore al normale, e di un'adesione spirituale che i posteriori contatti con il mondo greco-romano non avrebbero potuto cancellare. Comunque, quand'egli fece ritorno in città, fu alla setta dei Farisei che andò la sua preferenza piuttosto che a quella dei Sadducei, verso cui era in genere orientata l'aristocrazia delle grandi famiglie sacerdotali, e il giovane Giuseppe continuò a esercitare il suo ingegno nel lavoro d'interpretazione della Legge e il suo zelo nel praticarne i precetti.

Una prova di zelo esemplare il giovane ia diede nel 64 quando intraprese un viaggio a Roma per perorare la causa di alcuni sacerdoti deferiti qualche anno prima al tribunale imperiale dal procuratore M. Antonio Felice, quello di cui Tacito ricorderà con frase efficacissima che tiranneggiò i sudditi come solo un individuo di estrazione servile poteva fare2. Nel ricordare l'episodio, Giuseppe (Vita 13 sgg.) si limita ad osservare che le imputazioni erano di scarsa rilevanza, mentre sembra assai probabile che negli indiziati il funzionario romano avesse fiutato degli esponenti del movimento di resistenza, astenendosi peraltro, per una qualche ragione prudenziale, dall'applicare direttamente i suoi poteri coercitivi. Il viaggio di Giuseppe, anche se si svolse in condizioni più fortunose del solito per un drammatico naufragio in mare aperto, si concluse felicemente. Egli sbarcò a Pozzuoli, ove poté assicurarsi l'appoggio di un attore di origine giudaica, un tale Alituro, che era nelle grazie di Nerone sia, possiamo pensare, per il suo talento artistico, sia (e questo lo dice Giuseppe) perché godeva delle simpatie di Poppea, e l'imperatrice non solo assicurò il proscioglimento degli imputati, ma colmò anche di doni Giuseppe.

Quando questi fece ritorno a Gerusalemme (nell'autunno del 65, a quel che sembra) trovò che la situazione creata dai gruppi di resistenza antiromana si avviava a grandi passi verso la rottura. La tensione, cominciata oltre cent'anni prima ai tempi della presa di Gerusalemme e della profanazione del tempio da parte di Pompeo, era cresciuta di pari passo con l'ingerenza dei romani nelle cose di Giudea, provocata sia dal protrarsi della lotta fra il sommo sacerdote Ircano II e suo fratello Aristobulo (cui più tardi subentrò il figlio Antigono), sia dalle ripercussioni che in terra d'Oriente ebbero le vicende della guerra fra cesariani e pompeiani. Contro tale ingerenza, che nel 47, per volere di Cesare, aveva portato ad affiancare (di fatto, a sovrapporre) ai tradizionali poteri del sommo sacerdote quelli di un « viceré» con la nomina dell'idumeo Antipatro, era sorto in Galilea un movimento nazionalistico di resistenza con a capo Ezechia, capo-stipite di una famiglia di patrioti. Ma poco dopo, nello stesso anno 47, la sua banda venne battuta da un corpo di spedizione agli ordini di uno dei figli di Antipatro, Erode, il quale non si fece scrupolo di passarlo per le armi. Accennando a questo episodio (Bell I 204) Giuseppe chiama Ezechia (capo brigante) e i suoi uomini, con una nomenclatura che rifletteva il punto di vista dei romani, per i quali erano latrones i provinciali che cercavano di opporsi con le armi in pugno al loro dominio.

 

Ma da un punto di vista diverso, e non meno valido salvo che rispecchiava il pensiero dei vinti, ben altro che un delinquente comune era stato Ezechia, e per la sua morte i Sadducei avevano sollecitato il sommo sacerdote Ircano II a istruire un regolare processo. Insabbiato questo processo per l'intervento di Sesto Giulio Cesare, un procugino del dittatore che teneva allora il comando delle forze romane di stanza nella Siria, l'impresa contro Ezechia era diventata il punto di partenza di una fortunata ascesa che avrebbe fatto di Erode, sotto la protezione di M. Antonio e poi di Augusto, uno dei maggiori potentati del suo tempo. Era perciò naturale che i nazionalisti accomunassero Erode nel loro odio contro i romani; e fu da questi spiriti di intransigente difesa dei valori del giudaismo che prese allora l'avvio il movimento di resistenza degli Zeloti, di cui divenne poi animatore Giuda, figlio di Ezechia, l'alfiere della rivolta scoppiata nel 6 d., quando la Giudea cessò di essere un protettorato e venne direttamente assoggettata al dominio romano. Ispirato inizialmente al dovere dell'ubbidienza verso il solo Jahvé (e, dunque, non verso l’'usurpatore» Erode né, tanto meno, verso i romani), il movimento zelotico si era poi arricchito di motivi di carattere economico-sociale. Infatti all'acquiescenza, in linea di massima predominante presso i ceti più elevati, che dalla pax Romana si vedevano propiziato il godimento di antichi privilegi, si era contrapposta l'azione degli attivisti a sostegno delle masse più umili, ansiose di novità e, magari, di un rivolgimento totale da realizzare con una lotta concepita in termini di guerra di religione.  

Allorché nel 66 la situazione, dopo aver subito un continuo deterioramento, diventò insostenibile per l'azione provocatoria del governatore Gessio Floro, e a Gerusalemme presero a serpeggiare le fiamme della rivolta, fu Menahem, figlio di Giuda e nipote di Ezechia, quello che assunse e per qualche tempo tenne il comando delle operazioni. Il massacro della guarnigione romana aveva reso ormai inevitabile una spedizione punitiva delle truppe di stanza nella vicina provincia di Siria; ma queste forze, quando già sembrava che stessero per impadronirsi di Gerusalemme, vennero travolte assieme al legato Cestio Gallo in un'inaspettata quanto umiliante disfatta. La guerra voluta dagli estremisti, rappresentati oltre che dagli Zeloti anche dai cosiddetti sicari, era ormai alle porte, e coinvolse assieme agli altri il nostro storico.

Questi dovette avervi fin da principio una parte di primo piano, anche se molti importanti particolari della sua azione restano in ombra. Ciò dipende anche dalle discrepanze fra il racconto che egli ne fece nel Bellum e quello dato nella Vita oltre vent'anni più tardi (ved. appresso). Ad ogni modo, é soltanto nella Vita (17 sgg.) che Giuseppe dà qualche cenno sulla posizione da lui assunta di fronte al problema della guerra dal momento del suo ritorno da Roma fino allo scoppio delle ostilità: una posizione che lo vide allineato con i maggiorenti dei Farisei in una cauta (perché molto pericolosa) polemica contro le mene dei bellicisti, nel vano sforzo di richiamare costoro a una più realistica valutazione dei pericoli verso cui spingevano il paese. Ma poi l'inopinato disastro della spedizione punitiva di Cestio Gallo sopraggiunse a rendere incontenibile l'esaltazione dei fautori della guerra; questi presero il sopravvento e nel sinedrio, anche se con scarso entusiasmo, si deliberarono i provvedimenti richiesti dallo stato di guerra, in vista dell'immancabile ritorno offensivo dei romani. A Giuseppe, ignoriamo per quali particolari considerazioni, ma certo in grazia della prudenza cui appariva ispirato il suo atteggiamento, venne subito affidato un incarico di rilievo; nel racconto di Bell. II 568 quello di assumere il comando delle operazioni difensive nel settore della Galilea, mentre, secondo quanto narra il cap. 29 della Vita, egli fu chiamato a far parte di una commissione di tre sacerdoti inviati in Galilea per dar ordine ai patrioti di deporre le armi e uniformarsi alla linea di cauto attendismo decisa a Gerusalemme.

Nelle due notizie si é creduto di poter cogliere una grande divergenza, tanto da considerare come abusiva l'azione di comando esercitata in seguito da Giuseppe nella Galilea. Ma questa teoria si rivela poco convincente; infatti da quanto viene riferito nella Vita pare debba ricavarsi non la natura dell'incarico affidato a Giuseppe, ma il primo compito assegnatogli nell'esercizio delle sue attribuzioni, premessa indispensabile all'addestramento degli uomini e all'apprestamento delle opere difensive. Tale esercizio, che in partenza poteva fare affidamento sul sentimento patriottico della popolazione, rimasta per lo più sorda ai richiami dell'ellenizzazione, nei primi tempi venne reso assai arduo dallo scoppio di gravi episodi d'insubordinazione: se si considera che a darcene notizia é lo stesso Giuseppe, e con una lunga e dettagliata esposizione, é difficile dubitare della gravità della situazione che egli si trovò a fronteggiare. Nel suo racconto, se solo a prezzo di molti stenti e pericoli gli riuscì di affermare la sua autorità nei centri principali della regione, come Sepphoris, Tiberiade e Tarichee, ciò avvenne per le mene di Giovanni di Giscala, un esponente della resistenza locale che gli diede molto filo da torcere, fino a cercare di provocare la sua destituzione. È un racconto, questo di Giuseppe, che appare attendibile anche in vari particolari, ma che sorvola, naturalmente, sul punto più importante: l'arrivo da Gerusalemme di un comandante superiore (a un certo momento rimasto solo per la partenza degli altri due colleghi con cui era arrivato, cfr. Vita 77) non fu visto di buon occhio dai patrioti della Galilea, anche perché essi non tardarono a constatare che si trattava di un uomo non senza riserve verso gli ideali della resistenza, e che non credeva nella vittoria final. Era un difetto per niente trascurabile, capace anzi di neutralizzare i pregi di un comandante, anche il più accorto e valente di tutti quale Giuseppe si vantava di essere (cfr. Bell. III 144); ed é notevole, per concludere su questo punto, rilevare che il comitato dei Settanta, da lui istituito come organo consultivo di governo, gli serviva in realtà per tenere in pugno come ostaggi i notabili del paese.

In simili condizioni non dovevano essere gran cosa gli apparecchi difensivi che Giuseppe era riuscito a realizzare in Galilea, il settore che per ragioni geografiche era esposto a ricevere per primo l'urto dei romani. In Bell. II 572 sgg. egli dà l'elenco delle città che vennero fortificate, e il numero... (continua)


INDICE

Volume I

Introduzione
Bibliografia

TESTO E TRADUZIONE
Libro primo
Libro secondo
Libro terzo

Commento
Libro primo
Libro secondo
Libro terzo

Volume II

TESTO E TRADUZIONE
Libro quarto
Libro quinto
Libro sesto
Libro settimo
Commento
Libro quarto
Libro quinto
Libro sesto
Libro settimo

Cartine

Tavole genealogiche

Appendice
IL TESTO RUSSO ANTICO DELLA GUERRA GIUDAICA a cura di Natalino Radovich
Introduzione
Abbreviazioni
Testi
Libro primo
Libro secondo
Libro terzo
Libro quarto
Libro quinto
Libro sesto
Libro settimo

Note

Indice dei nomi propri di persona e di luogo

Ultima modifica il: Mar 04, 2017
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